Potremmo sperare che, nonostante tutto, quello che mangiamo sia nutriente e sano... Un documentario dal titolo Food Inc. ci svela in realtà come l’industria dell’alimentazione sia drasticamente cambiata negli ultimi cinquant’anni, mostrandoci senza troppi veli alcuni dei metodi di coltivazione e di allevamento che poco rispettano i ritmi naturali delle piante o le esigenze degli animali.
Pensateci bene: ormai al supermercato le stagioni non esistono più ed è possibile trovare ampia scelta tutto l’anno e magari acquistare frutta e ortaggi che arrivano da paesi lontani. I pomodori che dall’Europa giungono in America, ad esempio, vengono raccolti ancora acerbi dall’altra parte del globo e fatti maturare con l’etilene durante il trasporto. Hanno l’aspetto del pomodoro, ma ne sono solo l’apparenza. Ne rappresentano l’idea.
Ecco un estratto di ciò che viene raccontato nel documentario:
«È stato calato deliberatamente un sipario tra noi e il luogo di provenienza del cibo. Le industrie non vogliono che si sappia la verità. Se il consumatore la conoscesse, non comprerebbe. Seguendo a ritroso la filiera produttiva di queste fette di carne, non troveremmo di certo una fattoria, ma una fabbrica. La realtà è ben diversa da ciò che si crede. La carne viene lavorata da grandi multinazionali che hanno poco a che fare con tenute agricole e allevatori. Oggi il cibo proviene da lunghe catene di montaggio. Gli animali e i lavoratori vengono maltrattati e sfruttati. Gli alimenti sono diventati pericolosi, e ciò ci viene intenzionalmente nascosto.
Esiste un ristretto gruppo di multinazionali che controlla l’intera produzione alimentare dal seme al supermercato e che sta assumendo un crescente potere. Non è solo una questione di cibo, sono a rischio anche la libertà di espressione e il diritto all’informazione. Non è solo la nostra salute a essere in pericolo. Le multinazionali non vogliono che gli allevatori parlino e che queste cose si sappiano.»
Il documentario accompagna queste parole mostrando alcune immagini di «moderne» stie, dove polli e galline vivono ammassati in gabbia, con uno spazio vitale esiguo, costretti a produrre uova come se fossero operai in una catena di montaggio. E ancora più macabre sono le immagini di un’industria di carne, dove cadaveri di mucche scorrono su un lungo nastro che trasformerà l’animale morto in una bistecca confezionata e pronta da vendere al supermercato.
Food Inc. è riuscito a portarci filmati inediti e addirittura proibiti dalla legge statunitense. Uno dei giornalisti che ha contribuito alla produzione del documentario, infatti, ci fa sapere che negli Stati Uniti, attraverso un’azione di lobbying da parte delle più grandi aziende della filiera alimentare, si è riuscito a far vietare ai media, alla stampa e a chiunque produca informazione la pubblicazione di foto e di filmati che mostrino come avviene la produzione di cibo.
Perché secondo voi? Perché se sapessimo davvero come gli animali e le piante vengono trattati e quali processi di lavorazione e conservazione ci sono dietro a ogni alimento che arriva sulle nostre tavole, probabilmente smetteremmo di recarci nei grandi supermercati e torneremmo tutti a mangiare naturale. Capiremmo che per l’industria alimentare anche noi siamo come quei polli in gabbia: siamo soggetti sfruttati per produrre profitto. La pubblicità ci mostra spesso immagini ingannevoli illudendoci di venderci prodotti sani, ma che di naturale hanno ormai ben poco. Ma noi non lo sappiamo, perché tra chi produce e chi acquista c’è una distanza. «Divide et impera».
Pensiamo, ad esempio, alla nostra esperienza di acquisto al supermercato.
Ho la dispensa vuota, devo andare a fare la spesa. Cosa mangio stasera? Stasera... ho voglia di fragole israeliane! Al supermercato sotto casa mia le fragole le trovo tutto l’anno! Poi mi mancano i biscotti per la prima colazione e la carta igienica. Faccio la lista dei tre articoli da comprare e mi reco al supermercato. Entro e ascolto il solito jingle che mi ricorda il nome del supermercato, intervallato dalla musica della radio che ha lo scopo di rilassare e mettere a proprio agio i clienti. Così comincio a distrarmi tra un articolo e l’altro. «Che cos’è quel prodotto colorato laggiù in fondo? Ma guarda! È un nuovo cibo dietetico. Ma sì, lo provo!», e lo infilo nel carrello. Poi riprendo a cercare ciò che mi serve, anche se nel frattempo mi distraggo più e più volte tra i vari scaffali.
Alla fine arrivo alla cassa con il triplo dei prodotti che avevo scritto sul mio promemoria nel carrello. Mentre aspetto in coda il mio turno (davanti a me c’è una dozzina di persone, ciascuna delle quali pensa ai fatti suoi) scorgo il pacchetto di chewing-gum che mi piacciono tanto, e infilo anche quello nel carrello. Ma mentre sto compiendo questa operazione, il tipo dietro di me mi supera.
Maleducato! Gliene dico quattro su come bisognerebbe comportarsi, e mi impadronisco nuovamente del posto che mi spetta. Finalmente arriva il mio turno. La cassiera passa uno a uno gli articoli del mio carrello senza alzare gli occhi dal nastro scorrevole e dal monitor digitale e mi congeda con un freddo «Arrivederci».
Ora controllo lo scontrino: ero entrato per comprare tre articoli e invece ho speso 47 euro... Ho preso i biscotti, la carta igienica e... mannaggia, mi sono dimenticato le fragole!
Funziona così il marketing. Riesce a distrarci e a dividerci fino al punto da farci comprare quello che vogliono altri. Non sappiamo nulla riguardo alla provenienza dei prodotti, a come vengano allevati gli animali o cresciuti i frutti e gli ortaggi che troviamo sugli scaffali. Non sappiano nulla dei metodi di lavorazione, stoccaggio, distribuzione dei vari alimenti, nulla della provenienza dei cibi, né degli attori della filiera produttiva.
Non sappiamo nulla nemmeno dei nostri simili che, come noi, fanno la spesa nello stesso supermercato. La nostra esperienza di acquisto è quella di una persona che entra in un posto per comprare qualcosa e che ne esce acquistando dell’altro, sentendosi completamente separata da tutti gli altri: prodotti, produttori, clienti, commessi.
Il principio è sempre lo stesso: «Divide et impera». Siamo separati dal capire cosa c’è nel nostro piatto, come ci arriva, se è buono o no. E siamo separati dalle altre persone che hanno le nostre stesse abitudini. E se, invece di insultarci per difendere una posizione in coda alla cassa, cominciassimo a salutarci gli uni gli altri e ad andare al supermercato anche per gli altri? Perché non fare la spesa per due? Ognuno compra ciò che c’è scritto sulla lista della spesa dell’altro. Così eviteremmo di farci sedurre da tutto il resto e comprare cose superflue (o quantomeno sapremmo con chi prendercela riguardo l’acquisto di prodotti inutili...).
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