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giovedì 26 marzo 2015

QUANTO TEMPO DEDICHI AI TUOI SOGNI? INTERVISTA A SIMONE PEROTTI

Articolo estratto dal libro "Liberi dal Sistema - La Guida per Cambiare il Mondo Partendo da Sè" di Enrico Caldari.

Quanto tempo dedicate ogni giorno ai vostri sogni?
Siete consapevoli che la possibilità di vederli realizzati è direttamente proporzionale al tempo che spendete per cercare di diventare chi vorreste essere attraverso di essi?
Simone Perotti lo sa bene. Ex dirigente aziendale, ha impiegato 12 anni per pianificare e trasformare in realtà quotidiana le sue due grandi passioni: scrivere e navigare. Oggi Simone è un uomo «Libero dal Sistema», che sta vivendo il suo sogno: «Progetto Mediterranea» è una spedizione in barca a vela che dal maggio 2014 lo sta portando, da qui per i prossimi 5 anni di navigazione, a compiere il periplo del Mar Mediterraneo e realizzare quella che lo stesso scrittore e navigatore genovese descrive come «Una spedizione nautica, culturale, scientifica e di relazione tra i popoli», sostenuta anche dal Q Institute.

Tra i suoi libri più famosi, citiamo Adesso Basta (oltre 100000 copie vendute) e Ufficio di scollocamento. In tanti, poi, lo conoscono per aver dato vita al movimento degli «scollocati», che promuove il cosiddetto down-shifting.
Perotti è l’emblema di quelle persone, sempre più numerose, che sono riuscite a liberarsi dagli stereotipi e dalle costrizioni «innaturali» della società e a diventare realmente ciò che volevano essere. Stanco dei limiti imposti dal suo ruolo professionale e inappagato dal potere sterile dei soldi e di una pur onorevole carriera, ha deciso di cambiare vita, che per lui ha significato «voltare pagina» e «invertire la rotta».

http://www.liberidalsistema.com/


Ho avuto la possibilità di conoscere e intervistare personalmente Simone Perotti, e qui di seguito voglio riportare un estratto di quello che è stato il nostro incontro:
Enrico: Simone, qual è stata la tua storia personale prima di fare questa tua scelta di cambiamento, per cui sei diventato ormai noto al grande pubblico, in Italia e non solo?
Simone: È una storia molto semplice, nella normalità. Io sono stato un precario, poi un impiegato, poi ho fatto anche un po’ di carriera, sono diventato un quadro, un dirigente d’azienda, ma come ce ne sono moltissimi. Ho lavorato nelle comunicazioni, nel marketing, nelle relazioni esterne, negli affari istituzionali, in aziende di vario tipo, straniere e italiane. Una carriera effettivamente discreta, buona, nella media di quello che è avvenuto a tante persone.
Ho fatto un percorso che è abbastanza in linea con quello che veniva chiesto: studiare, laurearsi possibilmente con il massimo dei voti, fare uno studio post universitario, specializzarsi, entrare nel mondo del lavoro a tutti i costi, tutto devoluto all’obiettivo di fare carriera, di diventare qualcuno, per avere una scrivania, un biglietto da visita, avere un minimo di potere da gestire.

In realtà, durante tutto questo mio percorso, non mi sono mai fatto nessuna domanda su cosa dovessi fare. Ho applicato quelli che erano gli stilemi dell’epoca.
Enrico: Dopo aver raggiunto questi obiettivi a livello professionale, e quindi esserti inquadrato in quello che la società e il Sistema ti avevano chiesto di fare, come è scattata questa molla di cambiamento che ti ha portato poi a cambiare completamente strada?
Simone: La molla è scattata in maniera molto semplice, perché la molla è semplice. Il problema è che se uno non la vuole vedere, guarda caso non la vede.

Ma basta tirare una riga in fondo a ogni giornata. Com’è stata la giornata? La giornata è stata in linea con il desiderio di vita che io ho, il desiderio di qualità, di autenticità che io ho? E anche se non lo è stata, è servita a compiere un percorso che mi ci porterà, quindi ho dovuto stringere i denti, ma per un buon fine? Insomma, il bilancio della giornata, qual è stato? Sono stato il più simile possibile all’idea che ho di me? Cioè quell’uomo che io non sono ancora, che sento di poter diventare, e che se lavoro nella giusta direzione diventerò? Questa è l’autenticità.
E nella mia condizione, come nella condizione di tanti, fare il bilancio di ogni giornata era facilissimo. Tirare quella riga sotto era una pena. Perché io avevo impiegato 9, 10, 11 ore al giorno, per l’ennesima volta, per fare una sola cosa. Cioè quello che serviva per produrre denaro. Persino la carriera è solo questo. Anche se il potere è un concetto diverso dal denaro, ma sono simili.

http://www.metodorqi.com/libro.html


Quel denaro avrebbe dovuto rendermi felice, se fosse stato giusto fare tutta quella fatica per ottenerlo. Tanto o poco che fosse. Nel mio caso, era comunque inutile. Perché il denaro non rappresentava la mia idea di felicità. Le cose che mi piacciono, a cui aspiro, non sono in vendita. Sono costruibili con tanto impegno e hanno tante variabili, tante incognite, ma non sono disponibili in un grande magazzino.
E invece io accumulavo soldi... non che fossero tanti... li depositavo in banca, ogni mese, ed era una contropartita davvero piccola rispetto a quello che mi era costato produrli. Perché quelle 9, 10 ore al giorno significavano tutta la mia vita diurna. Quindi tutta la mia vita di veglia. E non restava che dormire per prepararsi a una nuova giornata.

È stato molto semplice il click. E constatare che avevo 32 anni, 36 anni, 38 anni, 40 anni... e stavo andando in una direzione che sempre più palesemente non era quella verso cui volevo dirigermi.
Io volevo fare due cose, lo sapevo fin da piccolo: scrivere e navigare. E queste due cose erano relegate negli interstizi di una stanza enorme in cui al centro c’era tutt’altro.
Ad esempio, la scrittura: scrivevo dalle 6 alle 9 della mattina, perché poi alle 9 bisognava lavorare. Scrivevo durante la pausa pranzo, di notte, negli aeroporti... togliendo tempo alle persone care... Però comunque io non potevo non scrivere, perché per me quella era ciò che Jack London chiama «la linea di minore resistenza», cioè dove sarebbe andata la mia pallina, sul piano sfalsato, se l’avessi lasciata andare libera da impedimenti. È una bellissima immagine. Ognuno di noi ne ha una.

A tutti quelli che adesso stanno pensando: «Beh, vedi che fortuna... lui già lo sapeva che voleva scrivere... ma io non ce l’ho questa passione, a cui dedicarmi...», io dico: un uomo che non ha una passione, è un uomo malato, di una malattia grave, ma curabile.
Il problema è un altro: quanto tempo dedichi ogni giorno a ciò che ti piace fare, ai tuoi sogni? Se al coltivare le nostre passioni, la nostra «linea di minore resistenza», non dedichiamo nemmeno un minuto, è chiaro che quella passione, quel sogno, non si svilupperà mai. C’è una corrispondenza diretta tra quantità di tempo, sforzi, energia, intelligenza che metti in una cosa e quello che ne ottieni.

Io lo sapevo già, perché nel corso del tempo mi era sempre sembrato chiaro. Io ero nato per scrivere, indipendentemente dal fatto che io scriva bene o male o che i miei libri vincano o no premi: è una cosa che riguarda me. E navigare, perché sono figlio di naviganti, gente che ha solcato gli oceani per amore, da sempre. Peccato che lo facevo due settimane l’anno, o durante le vacanze, o nei week-end... facendo tra l’altro un ulteriore sforzo di ansia, in una vita già piena di altri impegni.
La mia era una vita in cui ciò che doveva stare al centro era ai margini: una vita da cambiare. Il problema è che ai tempi non avevo un piano B.

Enrico: Dopo aver maturato questa consapevolezza, aver sentito quello che nella tua vita non andava e quello che invece avresti voluto veramente fare, qual è stato il cambiamento concreto che hai portato nella tua vita e quali difficoltà ti ha spinto a dover affrontare?
Simone: Intanto mi sono reso subito conto che bisognava andare via senza essere stati sconfitti. Ho capito che mi sarebbe servito del tempo per fare il percorso che stavo facendo portando a casa un minimo di risultato, che fosse in grado di dirmi che l’avevo saputo fare. Perché andare via pensando che andavo via perché non avevo saputo fare quello che dovevo fare in quel momento, cioè quel tipo di vita, non sarebbe stato un buon viatico. In quello credo di essere stato lungimirante, o l’ho capito per caso, ma è stato importante. Così mi sono immediatamente bloccato sulla fretta, che sarebbe stata la peggiore consigliera del mondo.

«Andiamo via domani!», o alla prima riunione andata male, alla prima non-promozione, così come la si attendeva. È un attimo dire: «Ok, mollo tutto!».
Serviva essere molto cauti. Primo perché il piano B non ce l’avevo. E quindi se non avessi fatto quello che facevo ogni giorno, non avrei saputo cos’altro fare. Vuoi perché serviva molta esperienza ancora per scrivere in maniera professionale, e vuoi perché per navigare bisogna saperlo fare... quindi nel
corso del tempo ho capito che dovevo specializzarmi e fare esperienza.
E così ho investito, in queste due cose. Ho investito tempo e risorse, anche in corsi di formazione, in modo da utilizzare al meglio il tempo che mancava al grande salto, preparandomi tecnicamente, con le cose che mi servivano e che erano importanti per me.
E poi ho capito che c’erano tanti aspetti che mi avrebbero messo in difficoltà ed erano tutti interiori, psicologici.
Io, ad esempio, ero un uomo che sapeva stare pochissimo da solo. E ho intuito che le scelte di cambiamento mi avrebbe portato in una «no man’s land» dove non ci sarebbe stato nessuno, perché effettivamente erano tutti di qua, a fare quello che facevo io... e di là c’era il vuoto pneumatico, e mi sarei trovato da solo. Come avrei reagito a questa solitudine?

Poi c’era il discorso organizzativo: dove avrei vissuto, dove sarei andato, come avrei risolto le questioni quotidiane, che costo avrebbe avuto questa vita se avessi smesso di avere uno stipendio... e quindi come avrei potuto sviluppare un progetto ampio, come lo si fa ogni giorno per lavoro.

Questo è bizzarro: ognuno di noi fa dei progetti per il suo lavoro, ed è molto professionale nel farlo. Magari fa anche delle presentazioni con PowerPoint... ed è così bravo che quando le espone, tutti lo applaudono... peccato che poi, per la sua vita, di progetti così ben dettagliati e studiati non ne faccia. Io ho avuto la buona voglia di pianificare il mio progetto di «nuova vita» in modo professionale. Cosa ho? Cosa non ho? Cosa mi manca? Volevo utilizzare tutte le risorse che avevo, anche quello che avevo studiato per condurre l’esperienza lavorativa fino a quel momento, per preparare il miglior progetto che potevo.

«Se sono così bravo a fare dei progetti, facciamone uno serio per me», mi dissi. E così mi sono messo a farlo. E mi sono accorto che serviva ancora tanto tempo, che non potevo cambiare la mia vita in un istante. Alla fine ci ho messo 12 anni a vincere determinate paure, a dirmi tante volte: «Ma sì, facciamolo!», senza sentirmi uno stupido che buttava a mare tutto quello che aveva costruito fino a quel momento.
Il tempo non mi è servito per risolvere il problema economico, perché ho capito che il vero problema non era come guadagnare più soldi lavorando meno, ma come spenderne meno per avere più tempo libero. Ogni costo non era denaro: era tempo che avrei speso per recuperare quel denaro. Questo non era bene. Se io mi trovavo da fare 50 lavori, invece che uno, per essere retribuito, con la scusa di aver lasciato il lavoro tradizionale, sarebbe stata una sconfitta. E quindi bisognava trovare una soluzione su questo. La sobrietà, la decrescita, l’autoproduzione, il riuso, il riclico, l’autonomia... bisogna saper fare le cose con le mani se vuoi spendere poco. Se vuoi farti ristrutturare casa da un’impresa, servono tanti soldi. Se te la ristrutturi da te, visto che hai tempo, devi però saperlo fare. O almeno devi avere capito che se non lo sai fare, ci devi comunque provare.
Enrico: Quando hai mollato la tua vecchia vita, quali sono state le tue soddisfazioni più grandi?

Simone: Io non pensavo che sarebbe stato così bello. Mi immaginavo una cosa meravigliosa, ma non così tanto meravigliosa. Ma è stato un bene, altrimenti mi sarei mosso prima, spinto dall’ansia di dover vivere una cosa così bella. È stato un bene che non sapessi, così non ho avuto troppa fretta.
La libertà è un’esperienza che nessuno conosce. Fin da bambini siamo sotto qualche autorità, qualche condizionamento, siamo sempre costretti nei tempi, negli spazi, nei modi, nelle tipologie, negli stili, nei pensieri... e non abbiamo esperienza della libertà. Farne qualche esperienza, come sto facendo io, è inebriante.
E poi non sono morto di fame. All’inizio, nel fare la mia scelta, ero quasi certo che sarei morto di fame. Perché è questo quello che ci dicono: «Se non porti a casa lo stipendio tutti i mesi, se non fai carriera, se non stai nei ranghi, muori di fame».
Questa è la paura più ancestrale.

Ma a me risulta che non muore più nessuno di fame nel Nord Ovest del pianeta, compresa l’Oceania. Inoltre, c’è tantissimo lavoro da fare. Io non ho mai avuto tante proposte di lavoro (di lavori molto umili) fino a quel momento. Tutti mi offrivano da lavorare, perché io dicevo: «Tu dammi un preventivo, e io te lo faccio alla metà». Giusto o sbagliato che fosse il prezzo, per me era irrilevante. Bastava che arrivassero dei soldi che mi servivano per campare. Campare implica l’alimentazione. Se sai cucinare da solo, costa 4-5 euro al giorno. Sapevo i prezzi dei supermercati a memoria.
Un esempio su come trovavo lavoro? Se per lavare una barca il mercato chiede 90 euro, io mi offro di lavarla a 50 euro, perché voglio avere più opportunità e non morire di fame. È giusto o sbagliato lavarla per 50 euro? È irrilevante, perché io ci mangio per 10 giorni con quella cifra. E ho comunque risolto il problema del mangiare. Vista così, è più semplice da capire.

Quelli che prima mi sembravano spiccioli, adesso mi sembravano tantissimi.
E così ho avuto la soddisfazione di vedere che non morivo di fame, oltre a cominciare a fare la cosa per cui sono nato. Una sensazione di raggiunta identità, una sincronia tra desiderio e realtà, che è il contrario dell’alienazione, ovvero dello staccamento. La coincidenza tra tempo, spazio, azione: fare quello per cui sei nato, che produca tanto o poco... mettiamo che non produca niente... ma tu stai facendo quella cosa per cui sei nato e che dovresti fare. E questo già ti fa sentire meglio. E quando stai meglio, tutto il mondo gioca a tuo favore, perché tutti ti vedono allegro, simpatico e rilassato; tutto è più favorevole e si innescano circoli virtuosi di situazioni favorevoli.

Tuttora a volte mi sveglio pensando: «Sto finendo i soldi, non arrivo a fine mese». Questo rimane, perché abbiamo dentro di noi un problema ancestrale, culturale.
E poi perché il problema c’è.
Insomma, i problemi continuano, ma si possono risolvere. E tra l’altro sono una parte dell’occupazione quotidiana. Non sono un eremita.
Ho cominciato a coltivare l’orto. Prima di allora, non avevo mai avuto esperienze con la terra, ma poi ho scoperto che è molto più facile di quello che sembra. E ora ho una piccola serra.
I problemi continuano, ma continuano anche le esperienze, le opportunità. E ora ho tempo di realizzare un sogno che ho sempre avuto: il Giro del Mediterraneo in barca a vela.

Se io muoio e non faccio una cosa che ho sempre pensato, la mia vita è un fallimento. Se io muoio e ho fallito nel tentare una cosa che ho sempre pensato, la mia vita non è un fallimento. Tentare e fallire ci sta. Non tentare non è dignitoso. Il punto non è riuscire. Un uomo non lo giudichi da dove arriva, ma da dove è partito, da quanta strada ha fatto.
Non c’è nulla che arrivi per caso, tutto è frutto di un lavoro enorme.
Tolti i fulmini e le malattie fulminanti per cui non c’è nulla da fare, siamo il risultato di quello che facciamo e che con pazienza, un’ora al giorno, giorno dopo giorno, ci prepariamo a fare. È molto difficile che un uomo che tenta non riesca almeno in parte. Io non ho mai visto un uomo che fallisce al 100%. Tentare si chiama «vita».

Enrico: Forse tu sei stato agevolato nel fare una scelta di cambiamento: avevi soldi da parte e una cultura manageriale per gestire il denaro che avevi, lavorando molto meno. Oppure tutti possono fare quello che hai fatto?
Simone: Noi tutti siamo esperti nella produzione di alibi. Quando uno evade dal carcere, è una brutta giornata per il direttore del carcere, ma una pessima giornata per gli altri carcerati. Perché se uno è evaso, significa che avrebbero potuto farlo tutti.
Da adesso in avanti, chi rimane in carcere deve sapere che o ci prova, perché ha a cuore la libertà, o non ci prova, perché non ha a cuore la libertà.

Gli alibi servono a toglierci dall’imbarazzo di sapere che soffriamo e pure per colpa nostra. Un conto è soffrire, un conto è soffrire sapendo che è anche colpa nostra.
Gli alibi più gettonati sono: non hai figli; hai fatto il manager e hai un sacco di soldi; hai una formazione che io non ho.
È vero che a migliori condizioni corrispondono maggiori opportunità, ma sono solo alibi.

Enrico: Visto che non ci sono alibi e che ognuno di noi potrebbe fare una scelta di cambiamento per uscire dal Sistema e conquistare la sua libertà, cosa non deve mancare nel bagaglio di conoscenze e competenze che ogni persona si deve portare prima di fare questo salto?
Simone: Il cambiamento è una decisione che si prende in maniera calda, con il sentimento, la passione, ma anche in maniera fredda, con la riflessione, la programmazione, la volontà, la razionalità.

Il cambiamento è un’opzione che non può esserci senza impegno, senza una disintossicazione da quello che fino a quel momento ci aveva trattenuto e da una rieducazione a quello che ci libererà. In questo percorso c’è per forza tanto da fare e c’è bisogno di acquisire tanti strumenti.
Tutti noi siamo di passaggio, su questa Terra. Tutti noi un giorno moriremo. Nessuno arriva in fondo e vince o perde. Se non c’è nulla da perdere, perché alla fine tutti moriamo, non vedo dove sia la paura. Non perdete tempo mentre la sabbia nella vostra clessidra si assottiglia.


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